Le speranze passate, presenti e future di una cura per l’ osteoporosi

Osteopenia ed osteoporosi che coinvolgono un numero di soggetti in grande incremento e che non devono assolutamente essere relegate alle età più avanzate come una ineluttabile evenienza; sempre più persone di giovane età ne risultano affette

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Le nostre ossa non rappresentano un tessuto statico ma si rinnovano continuamente. Questo rinnovamento avviene in circa 10 anni con una velocità che varia da osso ad osso e, semplificando al massimo, è legato al costante rimodellamento che il tessuto osseo subisce per il proprio accrescimento, per l’adeguamento a nuove situazioni o per la riparazione delle microalterazioni che la vita quotidiana causa in esso. Se la funzione di accrescimento è ben immaginabile le altre due condizioni meritano una spiegazione. Il nostro organismo “pensa” basandosi sulla massima economia per una qualsiasi funzione, ed ecco che, quando la forza di gravità diminuisce come nei sedentari, negli allettati, nei periodi forzati di riduzione dell’attività fisica (come nel recente Lock Down), negli astronauti, esso “risparmia” risorse diminuendo la massa ossea; si incrementa il riassorbimento ma, soprattutto, si riduce l’attività ricostruttiva. Un po’ diverso il caso dell’attività riparativa dei cosiddetti microcraks o microfratture causate dalla quotidiana funzione di sostegno che il tessuto osseo esplica. Per una numerosa serie di motivi si crea uno sbilanciamento, una mancanza di coordinazione, tra gli operai che effettuano la rimozione della parte danneggiata (gli osteoclasti), che diventa preponderante, e quelli che poi la dovranno risistemare (gli osteoblasti). Si passa quindi da una condizione di normalità ad una di carenza, osteopenia, ed infine ad un deficit significativo, osteoporosi, che, ad oggi, vengono valutati tramite un esame, la MOC DEXA.

Osteopenia ed osteoporosi che coinvolgono un numero di soggetti in grande incremento e che non devono assolutamente essere relegate alle età più avanzate come una ineluttabile evenienza; sempre più persone di giovane età ne risultano affette

È stato quindi logico che numerose molecole siano state testate per ridurre l’impatto di questa patologia a partire dai bifosfonati molecole sviluppate nel XIX secolo e che, a iniziare dagli anni sessanta del Novecento, vennero studiate in relazione alle patologie del metabolismo osseo.

Al di là dei farmaci più o meno noti per la cura dell’osteoporosi, vorrei soffermarmi su tre sostanze che hanno rappresentato o che tuttora rappresentano una grande speranza nella cura dell’osteoporosi: l’odanacatib, il romosozumab e l’irisina.

L’odanacatib, studiato sin dai primi anni 2000, è una molecola in grado di bloccare uno specifico enzima proteolitico (enzima, cioè, che distrugge l’integrità di alcune proteine che costituiscono l’impalcatura di collagene), Catepsina K, che viene secreto dagli osteoclasti per poter “digerire” il collagene dell’osso attraverso la degradazione di uno specifico aminoacido, la cisteina. In una sua prima fase di studio questa molecola fu utilizzata, con buoni risultati, per il controllo delle metastasi ossee e successivamente, per analogia, furono iniziati studi per il suo utilizzo come terapia per l’osteoporosi. L’azienda produttrice, la Merk, indirizzò le proprie ricerche in tal senso e nel 2014 annunciò che ne avrebbe richiesto l’autorizzazione all’utilizzo e nel 2015 anche in Italia con grande clamore la SIOMSS ne comunicava l’importanza. Purtroppo il loro uso cronico nel trattamento dell’osteoporosi può provocare effetti avversi, svelati nella cosiddetta fase IV di sperimentazione, in quanto gli inibitori della catepsina K, contenenti azoto di base, si accumulano all’interno di organelli acidi come i lisosomi, inibendo così l’attività di altre catepsine fondamentali per la normale attività del nostro organismo. Cosicché, nonostante che lo studio LOFT ne certificasse l’efficacia, altri studi ne sottolinearono la pericolosità; portava infatti ad un incremento di eventi avversi cardiovascolari, in particolare ictus talché la MSD ne cessò lo sviluppo. E così una grande speranza, ormai del passato, andò perduta anche se ad oggi altre molecole ad attività inibente sulla catepsina K vengono valutate.

Le maggiori speranze odierne, che dovrebbero essere considerate come realtà più che come speranze, sono rappresentate dagli inibitori di una molecola cardine dell’accoppiamento rimozione/ricostruzione del tessuto osseo, la sclerostina. La sua funzione è quella di frenare l’eccesso di attività degli osteoblasti creando un circuito di autoregolazione che nel soggetto normale porta ad avere ricostruzione e riassorbimento in equilibrio tra di loro. La sclerostina è negativamente regolata dal carico meccanico e dalla secrezione intermittente di PTH. L’espressione del gene SOST, il gene che ne determina la sintesi, viene invece stimolata dai glucocorticoidi (ed è per questo che l’osteoporosi glucocorticoidi-correlata danneggia maggiormente la struttura).

La neoformazione ossea indotta dagli anticorpi anti-sclerostina, quindi, non si associa a un aumento del riassorbimento, e pertanto genera un effettivo disaccoppiamento tra i processi di neoformazione e quelli di riassorbimento dell’osso; i fenomeni di neoformazione ossea interessano prevalentemente superficossee quiescenti cioè non in fase di rimodellamento; sulla superficie ossea pre-riassorbitiva la neoformazione ossea è quantitativamente superiore alla quota di tessuto minerale scheletrico riassorbita, determinando così un bilancio osseo netto positivo

La molecola prende il nome di Romosozumab, sviluppata da AMGEN e UCB ed è il primo anticorpo monoclonale anti-sclerostina, un farmaco, cioè, in grado di aumentare la formazione ossea inibendo l’attività osteoblastica indotta dagli osteociti. Gli analisti di Deutsche Bank prevedono un futuro di successo per romosozumab le cui vendite annue potrebbero arrivare a $1,1 miliardi. Il prodotto, sempre secondo le previsioni di Deutsche Bank, portebbe conquistare il 40% del mercato dei farmaci anabolizzanti l’osso, con un 40% che rimarrebbe a teriparatide generico (fonte SIOMSS). Questo farmaco ha avuto l’approvazione dell’ente europeo EMA alla sua commercializzazione con il nome di EVENITY nel gennaio del 2020 ma è controindicato in pazienti con pregresso infarto miocardico o ictus. Il suo utilizzo, tuttavia, è limitato ad periodo di massimo 12 mesi.

Veniamo ora al futuro. Alcuni anni orsono, ricercatori della Harvard Medical School, in particolare Bruce Spiegelman che condivise questa scoperta nel gennaio 2012 sulla rivista Nature, isolarono un peptide ad attività endocrina rilasciato dal muscolo che si liberava dal muscolo sottoposto a movimento. L’ Irisina viene rilasciata principalmente quando si svolge una attività muscolare attraverso l’esercizio che determina la separazione della parte extracellulare di un recettore trans membra, Fibronectin type III domain-containing protein 5. Questa molecola, classificata come una delle miochine prodotte dai muscoli durante la loro attività, ha molte funzioni tra cui stimolare il fattore di crescita neurotrofico (BDNF) che permette la sopravvivenza della cellula nervosa e il suo collegamento con altre cellule nervose, azione che si traduce in sviluppo delle funzioni cognitive (come l’apprendimento, la memoria e la motivazione) e una maggior attività cerebrale. Nota, inoltre, anche l’azione sul grasso chiaro e su quello bruno.

Ma una ricercatrice italiana dell’università di Bari ne intuisce, probabilmente a seguito della propria collaborazione con alcuni enti spaziali internazionali e basandosi quindi sulla propria conoscenza dell’osteoporosi da mancanza di movimento e di gravità, la grande importanza per la cura dell’osteoporosi. Infatti la massa ossea che perde un astronauta in un mese equivale più o meno a quello che un paziente, sulla Terra, perde in un anno. La professoressa Grano, questo il nome della ricercatrice, riesce a brevettare per l’università di Bari l’uso dell’Irisina nell’osteoporosi nel 2016 in Italia e successivamente in Europa. Recentemente è stato ottenuto anche il brevetto americano, cosa che, rendendo più appetibile economicamente la ricerca, forse ne accelererà lo sviluppo, essendo necessari moltissimi fondi per portare al compimento una sperimentazione di un farmaco prima della sua immissione in commercio, prevedibile, in questo caso, per il 2025. L’Irisina agisce su tutte le popolazioni di cellule presenti nell’osso ma risulta particolarmente attiva sugli osteoblasti, cellule deputate alla formazione di nuovo osso, rendendo tali cellule più numerose e più attive nella produzione di nuova matrice ossea. Questo si traduce in aumento della densità minerale ossea (BMD) prevalentemente legato al miglioramento della struttura di collagene rendendo l’osso maggiormente elastico e più resistente alle fratture. Tale effetto è ulteriormente potenziato dall’azione che Irisina esercita sul muscolo scheletrico, interrompendo, quindi, il circolo vizioso sarcopenia-osteoporosi. Il meccanismo di azione non è ancora del tutto chiaro ma l’irisina ha attenuato la progressione dell’osteoporosi diminuendo l’apoptosi degli osteociti e migliorando la microarchitettura dell’osso subcondrale. attraverso l’attivazione della via Erk che svolge un ruolo importante nella riduzione dell’apoptosi degli osteociti in vitro. Al di là della enorme possibilità terapeutica nei soggetti osteoporotici questa molecola, per il proprio meccanismo di azione, rappresenterà probabilmente una basilare forma di trattamento per tutti i Pazienti che soffrono di osteoporosi da alterata struttura sia nelle forme congenite (ad esempio Ehler Danlos) che in quelle acquisite (come, ma non solo, dall’utilizzo prolungato di corticosteroidi).

 

Dott. Gianfranco Pisano Laureato in Medicina e Chirurgia all’ Università la Sapienza Roma Master in Medicina dello Sport, Università di Siena Master malattie metaboliche dell'osso, osteoporosi, Università di Firenze Master Fitoterapia, Università di Trieste e Computense di Madrid

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