Precari a tempo “indeterminato”: gli effetti emotivi e psicologici del precariato.

La precarietà è un tema molto sentito nel mondo di oggi, e ultimamente lo si avverte in modo sempre più pressante

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In un mondo del lavoro sempre più complesso e privo di ogni certezza l’unica cosa che rimane di stabile –paradossalmente- è l’ansia e la preoccupazione per il futuro. Il precariato, infatti, non è più inteso esclusivamente come una condizione lavorativa ma anche come un vero e proprio stato psicologico ed emotivo. Una condizione che sempre più persone sono costrette a vivere e che di certo non tende a diminuire. La precarietà è un tema molto sentito nel mondo di oggi, e ultimamente lo si avverte in modo sempre più pressante. Paradossalmente, proprio ora che abbiamo raggiunto standard elevati di benessere e di salute, si comincia ad avvertire maggiormente questo tema. La precarietà è percepita rispetto al lavoro, all’abitazione e talvolta anche rispetto agli affetti. Viene da chiedersi se sia essa stessa un prodotto del benessere, se ne sia una conseguenza necessaria oppure se derivi dal ripiegarsi dell’uomo su sè stesso e dal non saper cogliere i segnali del cambiamento. Di fatto la precarietà, che venga percepita o no, è reale. Molte persone non riescono a vivere decorosamente in un Paese avanzato come il nostro, il che equivale a dire che vivono una condizione di disadattamento; molti giovani (che nel frattempo sono diventati sempre meno giovani), non hanno la possibilità concreta di progettare il proprio futuro e restano sospesi in un limbo che limita fortemente le loro capacità generative. Inoltre, aumenta il divario fra ricchi e poveri. La sindrome da precariato è ormai una realtà ed è una condizione patologica a livello individuale e collettivo riconosciuta, a cui bisogna assolutamente rimediare.

Ma qual è l’identikit del precario?

Si tratta di persone titolari di svariate tipologie contrattuali a termine (e spesso senza garanzie) che lavorano sia nel settore privato che nel Pubblico impiego. Nella scuola e nella sanità ne troviamo 514.814, nei servizi pubblici e in quelli sociali 477.299. Se includiamo anche i 119.000 circa che sono occupati direttamente nella Pubblica amministrazione (Stato, Regioni, Enti locali, etc.), il 34% del totale dei precari italiani è alle dipendenze del Pubblico (praticamente uno su tre). Gli altri settori che registrano una forte presenza di questi lavoratori atipici sono il commercio (436.842), i servizi alle imprese (414.672) e gli alberghi ed i ristoranti (337.379).

Stress, ansia, frustrazione, notti in bianco e depressione sono le dirette conseguenze del vivere costantemente in uno stato di incertezza tra contratti di lavoro in scadenza, dubbi sul rinnovo e spettro della disoccupazione all’orizzonte. Una costellazione di sintomi che tra tachicardia, tensioni muscolari, dolori articolari, gastrite, colite, mal di testa, disturbi dell’umore danno vita ad una vera e propria “Sindrome” quella del “Precario”. I lavoratori precari, inoltre, sviluppano una grande sospettosità sia verso i colleghi sia verso il datore di lavoro, tutti vengono percepiti come potenziali traditori, il luogo di lavoro si trasforma alternativamente in un campo di battaglia ed in un palcoscenico dove mettersi in mostra. Ma ciò che più spaventa e preoccupa è l’impossibilità di trovare la propria posizione nel mondo, di autodeterminarsi. Sono molto spesso vittime di azioni di mobbing e stalking occupazionale, eventi che esasperano ancora di più la difficile condizione lavorativa e di vita.

A tutto ciò segue sempre più frequentemente una condizione di inutilità e di sfiducia, una demotivazione che a poco a poco logora tutte le risorse dell’individuo.

Lo spazio di vita personale e relazionale ne risulta condizionato e i livelli di ansia che si accompagnano all’ambiente lavorativo ed al lavoro stesso determinano una significativa modalità depressiva di rapportarsi all’ esterno. Tra le conseguenze di uno stato di precarietà protratto nel tempo vi sono effetti che potremmo definire “primari”, in quanto sono quelli più immediati, dettati dalla reazione emotiva negativa di rifiuto della condizione stessa, e quelli “secondari”, che maturano nel tempo e sono basati sulla reazione emotiva di sfiducia nel cambiamento, un cambiamento che spesso tarda ad arrivare. Tra gli effetti primari, possiamo citare: impotenza, paura, rabbia, disorganizzazione, apatia, disperazione, depressione, disturbi psicologici. Tra gli effetti secondari intrisi di sfiducia, vi sono: perdita di fiducia in sé e negli altri, in particolar modo nei confronti delle istituzioni, rafforzamento dell’indifferenza verso le necessità altrui, avidità, attaccamento ai propri possessi, idee e convinzioni, comportamenti che giustificano iperlegalismo, diffidenza verso il diverso, tendenza ad avere un giudizio superficiale.

La precarietà mette di fronte al senso di impotenza, alla paura di perdere la sicurezza. La paura porta a regredire, a tornare a sensazioni ed emozioni già sperimentate nella prima infanzia, quando si era totalmente dipendenti dall’ambiente familiare. Anche nell’adulto, la precarietà genera dipendenza dall’ambiente, è come se non si percepisse più la capacità di incidere su di esso, o fossero vani gli sforzi di riuscirvi, proprio come si sente disorientato il bambino nel momento in cui, per un motivo o per un altro, perde l’appoggio affettivo delle figure di riferimento provando smarrimento e insicurezza. Nel bambino, se la situazione di precarietà affettiva persiste troppo a lungo, potranno verificarsi effetti devastanti sulla sua crescita emotiva, affettiva ed anche cognitiva. Studi neuropsicologici attestano che bambini deprivati affettivamente possono sviluppare ritardo mentale e motorio, nonché nell’acquisizione del linguaggio e nella capacità di leggere le proprie e le altrui emozioni. Gli studi psicoanalitici si spingono anche oltre affermando che ogni essere umano, nella primissima infanzia, ha sperimentato il dolore come reazione alla perdita della fusione con la madre. Quindi, di fatto, ognuno di noi conoscerebbe l’aspetto della precarietà della vita fin dalla culla. E dunque, la precarietà riporterebbe da un lato alle emozioni primarie, dall’ altro alla necessità di rielaborarle in un contesto spazio-temporale differente.

Nell’individuo adulto, però, la struttura emotiva è più complessa rispetto a quella del bambino; durante la crescita, infatti, vengono messe a punto delle strategie per difendersi dalle emozioni negative, per controllarle e direzionarle, compensandole con emozioni positive e imparando a rassicurarsi. Dunque, la reazione alla precarietà nell’adulto potrà non essere così devastante, almeno in una fase iniziale, ma causare una cronicizzazione di status e di stati psicologici disfunzionali a lungo termine che influenzerebbero in maniera negativa la propria capacità di percepirsi all’interno del luogo di lavoro, nello specifico e più in generale, all’interno della società minando sensibilmente la percezione di sé e della propria autostima, così come il sentimento di self efficacy, compromettendo di volta in volta la propria identità professionale e personale.

Il precariato rende angusto lo spazio entro il quale un soggetto può dare organizzazione e significato allo sviluppo della propria esistenza, ostacola la possibilità di strutturare un tema di vita, amplifica il rimuginio ansioso sulle insidie dell’ambiente e accresce la diffidenza all’interno dei contesti relazionali, poiché la convinzione secondo cui la disponibilità di appoggi significativi, non fondati sulle capacità dimostrate permette l’accesso ad un riconoscimento sociale e professionale altrimenti irraggiungibile, viene spesso confermata dai fatti. Questo genera una modalità depressiva di entrare in contatto con l’ambiente, uno stile di pensiero e di conoscenza che rifiuta l’esplorazione considerandola infruttuosa e illusoria. Il precario è perciò un individuo sfiduciato, che smarrisce la forza di cogliere eventuali opportunità di crescita e deve ristrutturare il proprio pattern di aspettative, bisogni, desideri collocandoli in una cornice strettamente quotidiana, elementare, nella quale coltivare un progetto esistenziale di largo respiro è esercizio quasi impraticabile. Come se non bastasse, il precario è spesso costretto a svolgere lavori che nulla hanno a che vedere con il suo percorso di studi, con le sue aspirazioni; in questi casi, alle difficoltà economiche procurate da retribuzioni insufficienti si aggiunge la complessa gestione emotiva di una rappresentazione di sé che modifica i termini con cui il soggetto si percepisce.

Ci chiediamo a questo punto: “Siamo pronti a gestire quote sempre più grandi di incertezza? A rinunciare alla progettualità del futuro? A non alimentare la nostra spinta evolutiva? A non sentirci concretamente realizzati per quello che realmente siamo”?

Non credo. Proprio per tale ragione una condizione di “precariato durevole” è indubbiamente dolorosa e innaturale.

Ci auguriamo che le Istituzioni-tutte-si attivino concretamente per porre fine a questa incresciosa situazione che si protrae, oramai, da troppo, troppo tempo e che scalfisce l’individuo sia dal punto di vista della propria dignità professionale, sia sul piano della realizzazione personale.

Dott.ssa Ilenia Gregorio
Psicologa Sociale iscritta all’Ordine degli Psicologi della Regione Campania N. 9622, Psicopedagogista Clinica, Mediatore Familiare Sistemico, Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale (Polo Clinico Centro Studi Kairos sede di Napoli dell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia di Roma). Ha conseguito la Laurea cum Laude a ciclo unico in Scienze Psicopedagogiche presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli discutendo la Tesi in Psicologia Dinamica sui Meccanismi di difesa e le dinamiche psichiche del paziente oncologico. Ha conseguito, inoltre, una seconda Laurea Magistrale in Psicologia Sociale, dei Servizi e delle Organizzazioni approfondendo la Psicologia dei Processi Cognitivi nelle malattie croniche e neurodegenerative con una Tesi sui Disturbi Cognitivi, Affettivi e Comportamentali nella malattia di Parkinson presso l’Università di Roma. Impegnata da anni nel campo della ricerca e del sostegno psicologico e psicopedagogico in oncologia e nelle malattie neurodegenerative inizia nel 2006, la collaborazione in qualità di ricercatrice e supporto alla ricerca con l’INT Fondazione Pascale di Napoli nel Dipartimento di Ginecologia Oncologica e di Psiconcologia che la vede impegnata ancora oggi in Progetti di Ricerca, psico-educazione, sostegno psicologico alle famiglie con patologia oncologica, e psicoterapia occupandosi sia di pazienti pediatrici che di pazienti adulti. Esperta in Infant Observation e Play Therapy, Docente e Formatore ha collaborato con la Lega Italiana Lotta ai Tumori (sezione di Napoli), con la Regione Campania e con enti pubblici e privati in Progetti di educazione Socio-Sanitaria, Counseling psicologico e corsi di formazione regionali. Relatrice in diversi Convegni e Seminari riguardanti tematiche Psicologiche e Pedagogiche è specializzata, inoltre, nel sostegno di famiglie multiproblematiche e devianti avendo lavorato con nuclei familiari a rischio e con forte disagio socio- economico e culturale della II e III Municipalità di Napoli. E’stata ospite in diverse trasmissioni televisive e radiofoniche trattando tematiche psicologiche, pedagogiche e di salute e benessere. Ha lavorato in Progetti nel campo delle disabilità ed ha coadiuvato programmi di Psicologia della Nutrizione ed Educazione Alimentare nelle scuole e in centri privati. Pubblicista e autrice e di Articoli per diverse testate mediche on line è stata impegnata nella S.C. di Epidemiologia e Biostatistica dell’Istituto Tumori di Napoli in attività connesse all’ Emergenza SARS CoV-2. Attualmente lavora come Psiconcologa presso la U.O.C. di Radioterapia dell’INT di Napoli “Fondazione G. Pascale” con pazienti pediatrici e pazienti adulti in trattamento radioterapico.

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