Con il sole di montagna…

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La prima fotoprotezione, è abbastanza intuitivo, dovrebbe venire dall’ambiente. Se la vita si è sviluppata sulla terra, in fin dei conti, è perché si erano create condizioni per le quali gli effetti nocivi della radiazione solare venivano limitati adeguatamente. Si potrebbe anche dire che si sono selezionati organismi, per così dire, adeguati a questo livello di radiazioni, ma il discorso finale non cambia: gli ostacoli posti dall’ambiente all’azione del sole sono funzionali al mantenimento della situazione entro limiti normali.

Lo strato di ozono

Però ormai nessuno ignora che l’ambiente è stato modificato, e parecchio, negli ultimi decenni. Basti pensare al dato più discusso: l’impoverimento della fascia dell’ozono. L’ozono, molecola con tre atomi di ossigeno, è un gas capace di assorbire le radiazioni solari, che è concentrato nella stratosfera (cioè tra 10 e 50 km dalla superficie terrestre). L’ozono assorbe grani quantità di raggi ultravioletti B (UVB), filtra completamente gli UVC e solo una frazione degli UVA, cioè quelli più direttamente responsabili dell’abbronzatura.
La quantità di ozono nella stratosfera non è fissa: varia in funzione di latitudine, altitudine, clima e temperatura. Ragion per cui che ci fossero situazioni in cui la filtrazione degli ultravioletti era meno efficace non era sorprendente. Il fatto nuovo è che dagli anni settanta si è osservata una progressiva diminuzione della concentrazione di ozono stratosferico, in particolare nell’emisfero meridionale, principalmente a causa di sostanze liberate nell’atmosfera, i clorofluorocarburi o CFC, che per così dire spaccano la molecola del gas. Questo ha comportato un aumento delle ustioni e dei casi di fotosensibilizzazione in alcune aree, tanto da poter valutare che a una diminuzione dell’1% della concentrazione di ozono corrisponde un aumento dell’1-2% della mortalità per melanoma.

Riflessi metallici

Proprio dall’effetto dell’atmosfera, che non esaurisce con il solo ozono il suo potere filtrante, si spiegano diverse circostanze. Per esempio, il fatto che in montagna, in quota, ci si abbronzi più rapidamente: per ogni 300 metri di altitudine in più, la radiazione ultravioletta aumenta del 4%. Allo stesso modo, quando il sole è allo zenit, cioè nella posizione a picco che assume attorno al mezzogiorno, le radiazioni compiono un tragitto più breve attraverso l’atmosfera, ragion per cui l’assorbimento è minore. Si è calcolato che il 50% degli ultravioletti che raggiungono il terreno in una giornata si concentra dalle 12 alle 15. Fin qui le variazioni per così dire fisiologiche, ma ve ne sono altre che invece sono da attribuire in buona misura all’azione dell’uomo sull’ambiente. Per esempio, se è vero che la neve riflette gli ultravioletti in modo molto efficace, lo stesso vale per le superfici sabbiose e per quelle metalliche (una riflessione che arriva al 90%), ragion per cui non deve meravigliare il fatto che ci si possa ustionare anche in città; anzi, è più probabile che accada stando in un ambiente “artificiale” piuttosto che su una barchetta al largo, visto che la superficie marina riflette soltanto il 15% degli ultravioletti che la colpiscono, ancora meno efficace, come riflettore, la superficie delle piscine: 10%. E’ la riflessione il motivo per cui anche stare all’ombra non equivale all’assenza di radiazioni. Al contrario, restare sotto l’ombrellone, pur facendo la tara sul materiale con cui è realizzato, può in alcuni casi dimezzare la quantità ricevuta, che non è moltissimo. Al contrario, l’ombra garantita dal fogliame, meglio se fitto, può bloccare il 95% degli ultravioletti. Resta il fatto, comunque, che il modo migliore per ridurre l’irradiazione è non esporsi proprio nelle ore che vanno dalle 12 alle 15. Troppo semplice, banale? Vero, ma sono queste le cose che non si fanno.

Fonte Dica 33

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