Il controverso studio dell’alcaloide psicoattivo estratto dall’Iboga

Nell'Africa centro-occidentale i popoli tradizionali ne usano da secoli piccole dosi contro l'affaticamento, la fame e la sete.

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La Tabernanthe iboga è un arbusto africano la cui corteccia contiene un alcaloide psicoattivo chiamato “ibogaina”. Nell’Africa centro-occidentale i popoli tradizionali ne usano da secoli piccole dosi contro l’affaticamento, la fame e la sete. Una dose di pianta più cospicua è utilizzata per i rituali di iniziazione al sentiero spirituale Bwiti, causando le visioni intense di cui si è parlato, spesso accompagnate da un vivido ricordo dei propri vissuti. L’ibogaina è un alcaloide complesso, i cui effetti psicoattivi sul cervello non sono ancora stati del tutto compresi: essa si lega a diverse famiglie di recettori: quelli degli oppioidi, del sigma, del glutammato e i recettori nicotinici, anche quando viene assunta a basse concentrazioni. Gli effetti a lungo termine dell’ibogaina sono causati da un suo metabolita, la noribogaina, che permane nel sangue nel sangue per più di ventiquattro ore.

Scomparsa della sindrome da astinenza

L’arrivo dell’ibogaina nel mondo non africano risale ai primi del Novecento, con un’indicazione terapeutica per il trattamento dell’astenia e come stimolante neuromuscolare. Negli anni Quaranta e Cinquanta ne viene studiata l’idoneità come potenziale farmaco cardiovascolare, ma è solo dagli anni Sessanta, che questa sostanza giunge alla ribalta per il trattamento delle dipendenze. I roditori trattati con ibogaina mostrano sintomi meno evidenti di astinenza da oppiacei e una ridotta auto-somministrazione di diverse droghe d’abuso, tra cui oppioidi, eroina, cocaina, nicotina e alcool. Nel passaggio agli studi clinici sugli esseri umani, i pazienti riportano comunemente la scomparsa della sindrome da astinenza entro le prime 12-18 ore dall’assunzione della ibogaina, e una riduzione del craving, ossia il desidero impellente di assumere la sostanza da cui si è dipendenti, per periodi di tempo prolungati: fino a diverse settimane. Per la prima volta, agli inizi degli anni Novanta la FDA (Food and Drug Administration) degli Stati Uniti ha approvato uno studio clinico sull’uomo per studiare gli effetti dell’ibogaina, ma la morte per arresto cardiaco di una paziente coinvolta nel trial ha fatto cessare l’interesse per questa sostanza e il NIDA (National Institute of Drug Abuse, ossia l’Istituto Nazionale Americano per l’Abuso di Droghe) ha deciso di non finanziare ulteriori studi sull’uomo a partire dal 1995. L’ibogaina è stata stigmatizzata come allucinogena e stimolante con un potenziale rischio di abuso, e conseguentemente classificata come sostanza “proibita”.

Ibogaina per il trattamento delle dipendenze

Lo sviluppo dell’uso del farmaco contenente ibogaina per il trattamento delle dipendenze è tuttavia proseguito, anche se al di fuori dei contesti clinici e medici convenzionali: il farmaco in commercio non c’è ancora, ma esistono oggi cliniche dove ci si può “disintossicare” dalle dipendenze con l’iboga, ambienti più rassicuranti di certi “ritiri” tradizionali in cui una persona che ha magari anni di dipendenza alle spalle, ed è quindi in cattive condizioni fisiche generali, può correre seri rischi. La complessa farmacologia dell’ibogaina, infatti, comporta dei possibili effetti collaterali sul sistema cardiovascolare, e tra il 1990 e il 2008 sono stati descritti 19 decessi dovuti a questa sostanza. Va notato però che si tratta di casi in cui essa viene somministrata ad organismi debilitati, in fase di disintossicazione da oppiacei o da alcol. In 14 di questi casi esistevano adeguati dati post mortem che dimostravano che quasi tutti i deceduti soffrivano di problemi di salute preesistenti o avevano organismi compromessi dall’assunzione aggiuntiva di altri farmaci, come il metadone. Le autopsie parlavano soprattutto di preesistenti problemi cardiovascolari (sclerosi coronarica, ipertensione, infarto del miocardio, ipertrofia cardiaca e cardiomiopatia dilatativa) ma anche epatici (epatite, cirrosi epatica e steatosi). L’ibogaina può indurre un prolungamento del tempo necessario ai ventricoli cardiaci per depolarizzarsi e ripolarizzarsi questa variazione, visibile in un elettrocardiogramma, aumenta notoriamente il rischio di aritmia, che può risultare pericolosa[1].

Da usare a dosaggi orali bassi

Dal 2008 in poi, sono stati riportati altri 3 casi di morte improvvisa attribuibile all’ibogaina: il caso di un uomo di 52 anni con una storia clinica di vent’anni di abuso di alcol, la cui autopsia ha rivelato una sclerosi delle coronarie, la cirrosi epatica e la steatosi come possibili malattie concomitanti all’assunzione di ibogaina. Un altro caso riguarda un ventisettenne con una storia di 15 anni di abuso di sostanze multiple, ma nessuna patologia cardiaca preesistente: prendeva però il metadone e un antidepressivo. Secondo il medico forense, la morte era dovuta a un sovradosaggio misto a base di ibogaina, metadone e benzodiazepine. Infine, troviamo in letteratura il caso di un uomo di 25 anni con una storia di tachicardia sopraventricolare e di dipendenza cronica da eroina: l’uomo ha avuto spasmi muscolari, atassia, difficoltà respiratorie e, infine, un arresto cardiopolmonare. Nonostante la rianimazione, il paziente è deceduto dopo due giorni a causa di insufficienza multiorgano. È interessante notare che in queste autopsie non sono stati riscontrati segni di neurotossicità, diversamente dai risultati di precedenti esperimenti su animali. Nel loro insieme, questi casi di decessi seguiti all’ibogaina indicano che i fattori di co-morbilità o l’assunzione di farmaci possono contribuire al rischio di morte associato a questa sostanza: insomma, se gli incidenti mortali vadano ascritti all’ibogaina soltanto o all’esistenza, quando la si assume, di patologie pregresse, è ancora materia di studio e di dibattito. Per ridurre al minimo i rischi di aritmie cardiache e danni neurologici, comunque, le raccomandazioni sono di usare dosaggi orali bassi di ibogaina, solo sotto stretto monitoraggio medico e dopo accurati controlli medici.

Alper, K.R., Stajić, M. and Gill, J.R. (2012), Fatalities Temporally Associated with the Ingestion of Ibogaine. Journal of Forensic Sciences, 57: 398-412.

Fonte Farmacista 33

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