La comunicazione schizofrenica durante la pandemia e i rischi per la salute mentale

A cura di Dr. Lorenzo Baldassarri e Dr. Andrea Giammaria

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Che la salute mentale in questo lungo anno di pandemia sia stata messa ai margini dalle Istituzioni e dai nuovi centri decisionali e di potere (chissà che fine ha fatto la psicologa che ad inizio pandemia è stata chiamata a far parte del Comitato Tecnico Scientifico…) è indubbio. Da parte di tutti gli esperti della salute mentale abbondano articoli, appelli, post, prime ricerche e, in qualche caso, dimostrazioni di piazza (ricordiamo quella del presidente dell’Ordine degli Psicologi David Lazzari in piazza Montecitorio) per richiamare l’attenzione su quello che sarà un effetto secondario della pandemia molto impattante per la popolazione, insieme a quello economico. Danni secondari solo per ordine di tempo e non per indice di gravità, poiché le problematiche psicopatologiche sono spesso pervasive: il loro esordio può essere subdolo, strisciante e protratto nel corso dei mesi, condizionando negativamente tutti i lati della vita dell’individuo e del sistema in cui vive (psicologico, biologico, relazionale).

Altra considerazione niente affatto scontata: i danni psicologici a breve, medio e lungo termine possono variare da semplici malesseri a disfunzionamenti acuti, fino a veri e propri quadri psicopatologi che colpiscono trasversalmente tutta la popolazione sottoposta ad evento traumatico. Le insorgenze psicopatologiche possono colpire tutti, senza differenza di età, genere, livello sociale, provenienza, mentre il Covid-19, come indicano i numeri ufficiali di Epicentro dell’ISS, è prevalentemente una malattia che colpisce gravemente e può diventare fatale in modo settoriale. Non solo: i danni psicologici sono dietro l’angolo anche per chi, contagiato e sintomatico, si è trovato faccia a faccia con il virus, chi ha subito ricoveri traumatici, chi è stato sottoposto a lunghissimi periodi di isolamento, chi ha avuto familiari o persone vicine colpite e decedute.

Tantissimi sono i fattori di rischio di cui in questi lunghi mesi si è già eccellentemente scritto e studiato, ma in questo articolo vogliamo prenderne in esame uno che è risultato, a nostro avviso, tra i più ridondanti, critici e tutt’ora in essere: la comunicazione istituzionale durante la pandemia.

Giusto per non essere fraintesi, il nostro intento qui non è criticare l’oggetto delle decisioni da parte delle Istituzioni (di cui ognuno ha la propria personale opinione e di cui vanno tenute conto tutte le difficoltà dovute all’onere di prendere decisioni in situazioni di urgenza-emergenza) bensì esaminare quegli aspetti verso cui risulta fondamentale prestare attenzione (o avere buon consulenti che lo facciano per noi): le modalità comunicative.

Un detto popolare recita: “La lingua non ha ossa ma le rompe”.

Questo per ricordare quanto, a prescindere dal livello culturale di partenza, le parole scelte dalle persone abbiano un peso determinante nel corso delle nostre vite.

Nel nostro caso specifico (la professione di psicoterapeuti) siamo formati per anni nel comprendere quanto in alcuni contesti familiari o sociali la comunicazione possa generare malessere in un individuo al punto da farlo ammalare, anche gravemente. Allo stesso modo i nostri strumenti terapeutici, sebbene varino moltissimo a seconda dei modelli teorici di riferimento, hanno sempre come fondamento il comune denominatore del linguaggio: la psicoterapia è anche detta nei manuali “terapia della parola”.

Tornando alla comunicazione legata a contesti diversi, potremmo innanzitutto porci una domanda abbastanza scontata: esiste una comunicazione più efficace di un’altra? Naturalmente. Allo stesso modo, ne esiste una più deficitaria o disfunzionale? E che conseguenze può avere sul contesto stesso e sui membri che lo compongono?

Altra premessa importante: parlare di contesto non deve portarci a pensare unicamente a popolazioni diverse (contesto familiare, aziendale, amicale, sportivo ecc.), ma anche a situazioni o momenti specifici.

La popolazione che vive un contesto di emergenza si trova d’un tratto ad affrontare, a più livelli del proprio Sé (cognitivo, emotivo e fisiologico), una situazione di allarme: gli studi psicofisiologici confermati da ormai più di mezzo secolo sugli effetti dello stress (a partire dalla Sindrome generale di adattamento di Selye) ci danno un quadro chiaro delle fasi di risposta normale che un qualsiasi individuo sano mette in atto di fronte ad un evento anormale.

Ciò premesso, come può la comunicazione del rischio influenzare positivamente o negativamente degli individui sottoposti a prolungati fattori di stress fisico, psicologico ed ambientale?

Trovandoci in una situazione di emergenza prolungata, la popolazione è sottoposta continuamente ad una massiccia comunicazione multi-dimensionale (istituzionale, mediatica, social, professionale, amicale ecc.), un flusso continuo di informazioni che dovrebbero essere gestite in termini di reazione di stress positivo.

Inoltre va ricordata una delle prime regole che la psicologia insegna: il vero peso che avrà sulla persona questa mole di informazioni è la risultante dell’impatto che queste avranno all’interno della psiche, ovvero da come le informazioni vengono rielaborate dai nostri filtri emotivi e cognitivi. Quanta parte della popolazione ha davvero capito cosa viene comunicato? Quanta ha davvero gli strumenti per farlo? Quanta di essa sa verificare la fonte e la veridicità dell’informazione? Quanta, infine, possiede gli strumenti psico-emotivi per gestire questa comunicazione fortemente ambivalente e far si che non diventi un fattore di rischio per la sua salute psico-fisica?

Il bisogno di rassicurazione e protezione è un aspetto insito nella natura umana (e persino nella maggior parte di quella animale!) a prescindere dall’età: quando percepiamo di essere in una situazione di vulnerabilità abbiamo bisogno di sentire che qualcuno, su cui probabilmente proiettiamo aspettative di caregiver, si prenda cura di noi.

Lo Stato rappresenta (o dovrebbe rappresentare) una entità che si occupa di tutelare la sua popolazione nei bisogni e fabbisogni per cui il singolo individuo non potrebbe mai, con i propri mezzi, poter provvedere. Se ci pensiamo, fin dalla sua strutturazione più antica, il senso di comunità tra persone si è strutturato prevalentemente per rafforzare il senso di sicurezza e protezione del singolo (militarmente, socialmente e, successivamente, lavorativamente). Checché ciascuno possa dirne, la quasi totalità della popolazione ha interiorizzato questo senso di Stato, anche coloro che lo criticano aspramente, altrimenti la critica non avrebbe senso di esistere. Questa interiorizzazione prevede delle aspettative di soddisfazioni di bisogni ogni qual volta la popolazione, o il singolo individuo, percepiscono che da soli non riescono a far fronte a quei bisogni stessi. Esiste anche un requisito fondamentale: affinché l’individuo possa alimentare sane aspettative per alleviare le sue sofferenze, occorre una essenziale fiducia verso l’ente su cui vengono riposte.

Lo Stato ha come ruolo quello di colmare bisogni quali quelli di sicurezza, salute, dei diritti sociali, di benessere economico, di soddisfazione lavorativa ecc., ma in questo stato di emergenza generale si è stato scelto di elevarne taluni a discapito di altri (a nostro avviso correttissimo sul breve periodo ma pericoloso, come ormai è, sul lungo).

Prenderemo in esame l’aspetto psicologico di bisogno di sicurezza, perché purtroppo ha il grosso svantaggio di non essere così facilmente quantificabile e visibile come gli altri aspetti e tuttavia crediamo non sia meno importante. Dal punto di vista psicologico il bisogno di sicurezza deve potersi avvalere, come condizione imprescindibile per la sua soddisfazione, di una comunicazione efficace, adeguata all’andamento del bisogno stesso.

Per rendere meglio l’idea, vogliamo portare un paragone da utilizzare successivamente come comparazione, ossia un esempio positivo di comunicazione istituzionale efficace (riconosciuta a livello mondiale) nel medesimo contesto di pandemia da Covid-19: quello della Nuova Zelanda.

Ribadendo nuovamente che non si vuole analizzare la bontà dei contenuti delle decisioni attuate e tralasciando il fatto che per i principali osservatori occidentali questo Paese ha saputo dare risposte risolutive anche a livelli sociali ed economici, oltre che sanitari, qui ci limiteremo solamente a citarne l’esempio di comunicazione efficace tra Stato e popolazione. La giovanissima leader del Paese, Jacinda Ardern, ha scelto ad aprile 2020 una linea molto rigorosa per i suoi cittadini, per fronteggiare la diffusione virale. Come è riuscita a far passare comunicativamente delle decisioni cosi difficili ottenendo un largo consenso nella popolazione (ed evitando anche un fattore di rischio per il benessere psico-bio-emotivo dei sui cittadini)? Citiamo a questo proposito un estratto dall’articolo di Suze Wilson, che insegna sviluppo manageriale all’Università di Massey in Nuova Zelanda “Un buon punto di partenza potrebbe essere la ricerca di due statunitensi, Jacqueline e Milton Mayfield, sui fattori che rendono efficace la comunicazione di un leader.

Secondo i due studiosi, ‘dare indicazioni’, ‘creare significati’ e ‘mostrare empatia’ sono le tre doti principali che un leader deve avere per motivare i suoi sostenitori a dare il meglio di sé. Per un leader motivare è essenziale ma spesso lo fa nel modo sbagliato. In genere da troppe indicazioni e punta poco su gli altri due fattori. Ardern ha risposto alla pandemia usando tutti e tre i metodi. […] L’annuncio del lockdown fatto il 23 marzo è stato un chiaro esempio della sua linea: un discorso preparato con cura, seguito da una lunga sessione di domande dei giornalisti. Al contrario, il primo ministro britannico Boris Johnson ha annunciato il lockdown il 24 marzo con un discorso preregistrato, senza dare possibilità ai giornalisti di fare domande: ha presentato il blocco come una serie di ‘istruzioni’ del governo, mettendo una forte enfasi sulle misure per farlo rispettare. Mentre Ardern fondeva indicazioni, attenzione e significato, Johnson chiedeva soprattutto ‘rispetto per i divieti’.

L’ex premier italiano, come ricorderemo tutti (in data 23 Febbraio 2020), ha avuto tra i primi canali comunicativi la trasmissione “Domenica In” e come prima interlocutrice la sua conduttrice Mara Venier: qui ha fatto il punto della situazione sulle misure straordinarie prese per contenere i contagi da coronavirus.

Se analizziamo la comunicazione delle Istituzioni Italiane dall’inizio dell’emergenza ad oggi, possiamo parlare di comunicazione efficace? Le tre doti comunicative sopra citate sono state studiate, elaborate e poi applicate efficacemente?

Partiamo dalla prima: dare indicazioni.

Sicuramente è stata la parte più utilizzata dalle Istituzioni, vista la quantità di Decreti emessi in meno di un anno. La sensazione avuta dalla popolazione tuttavia è stata di una eccessiva mole di informazioni poco chiare, emanate con tempistiche quantomeno discutibili (tutti ricordiamo i primi DPCM di Marzo emessi a notte fonda, che hanno generato reazioni di panico e comportamenti di fuga in massa, intasando le stazioni ferroviarie del nord Italia) e spesso in ritardo rispetto ai tempi. Durante la seconda ondata si sta assistendo ad un peggioramento dal punto di vista della comunicazione normativa, che arriva quasi al paradosso in cui gran parte della popolazione lavorativa non sa nemmeno se può o meno riaprire la sua attività produttiva con un margine di tempo adeguato. Inoltre, fin dal principio, si è spesso attuata una comunicazione normativa tendenzialmente moralizzante e divisoria delle categorie sociali, che ha portato dall’inizio del primo lockdown o, per dirla in italiano, confinamento (e visto che parliamo di comunicazione, provate a pensare se fosse stato utilizzato ripetutamente questo termine, che effetto emotivo avrebbe avuto…) a forte rabbia e tensione sociale, talvolta esplosa con disordini e proteste.

Due: creare significati.

A nostro avviso è stata la parte più debole. Basta vedere l’enorme quantità di credenze, significati, pensieri differenti e in contrasto fra loro che sono maturati nelle persone e che hanno scaturito una gamma di emozioni e comportamenti diametralmente opposti, paura e chiusura, fastidio e rifiuto, rabbia e frustrazione.

Lo strumento comunicativo maggiormente utilizzato (come sempre dalla politica) è stata la retorica, secondo noi il metodo peggiore per creare significati nelle persone. Perché? Perché nella grande maggioranza dei casi (se non tutti) non corrisponde poi alla realtà delle cose. Basti pensare alle roboanti dichiarazioni che poi sono state prontamente smentite nei fatti, per fare alcuni esempi: “Siamo prontissimi, abbiamo adottato tutti i protocolli possibili e immaginabili” (28 gennaio 2020), “Non lasceremo indietro nessuno” (16 marzo 2020), “Varato decreto che è una potenza di fuoco” (6 aprile 2020), “siamo tranquilli abbiamo creato una rete sanitaria efficace ed efficiente” (5 agosto 2020), “Non ci troveremo più ad affrontare un altro lockdown” (6 settembre 2020), “tutto il mondo parla del modello Italia” (20 settembre 2020), “non ci sono gli estremi per tornare alla didattica distanza” (13 ottobre 2020), “facciamo sacrifici ora per passare un natale sereno” (25 ottobre 2020), “Una campagna di vaccinazioni senza precedenti” (27 dicembre 2020) ecc. Questa è una breve carrellata del tentativo di comunicazione in positivo che ha creato nelle persone aspettative, speranze, possibilità di guardare oltre. Ma i messaggi lanciati non hanno trovato poi riscontro nella realtà dei fatti, deflagrando così le aspettative e creando nelle persone stati emotivi e umorali decisamente negativi.

Cosa avrebbero dovuto fare allora? Comunicare in modo cupo e pessimista? Aldilà del fatto che la comunicazione negativa c’è stata e come, ne citiamo giusto due esempi: “Io chiuderei tutti in casa per l’intera durata delle festività” (detto dal Ministro della Salute al Corriere della Sera il 18 Dicembre 2020), “Terza ondata, rischio anche in estate” (detto dal premier il 30 Dicembre 2020).

Se ritorniamo alle tre line guida per una corretta comunicazione, di certo possiamo affermare che se le Istituzioni avevano in mente di creare dei significati, è accaduto che la popolazione, questi significati, non li ha compresi. In tutto l’autunno-inverno sono stati emessi numerosi decreti governativi (alcuni anche a distanza di pochi giorni), dove il nuovo contraddiceva e modificava quello appena varato: il tutto ha accentuato il senso di confusione, rabbia, tristezza e rassegnazione (addirittura è ormai diventato quasi normale assistere a pubblicità di integratori per dormire o combattere l’ansia). A livello psicopatologico, nei nostri pazienti o ex pazienti più fragili psicologicamente, abbiamo riscontrato ricadute gravi con un riacutizzarsi di severi disturbi dell’umore, d’ansia o episodi misti, come mai nei nostri più di 10 anni di esperienza clinica ci era capitato di osservare.

E l’empatia? Nei discorsi dell’ ex premier, spesso veniva utilizzato un tono comunicativo empatico “non ci abbracciamo oggi, per abbracciarci più forte domani”, “ci rendiamo conto dei sacrifici fatti”. La scelta di questa tipologia di frasi è vincente dal punto di vista psicologico perché avvicina l’Istituzione al cittadino in un momento di vulnerabilità. Il problema è che, alla lunga, subentra il fattore della coerenza comunicativa tra l’emittente ed il ricevente. È difficile risultare empatici quando vengono imposte regolamentazioni alle attività commerciali (giuste per carità) per il contenimento del contagio e poi gli stessi esercizi commerciali, dopo aver investito a spese proprie per la propria sopravvivenza, vengono fatte chiudere totalmente. Difficile trasmettere vicinanza e sicurezza con bollettini quotidiani della conta di morti, terapie intensive, contagi e indice di trasmissibilità Rt e il numero dei guariti, che è sempre stato di gran lunga superiore, viene lasciato da ultimo (a proposito, solo noi abbiamo notato che a partire dalla “seconda ondata” è praticamente sparito dalle comunicazioni l’unico dato ottimistico, per l’appunto, i guariti?).

Alla luce di questa analisi abbiamo attribuito a questo tipo di comunicazione istituzionale, soprattutto per le modalità che perdurano nel tempo, l’aggettivo di “schizofrenica”. L’analogia con il famoso disturbo psicotico non è stata scelta tanto per la gravità, quanto piuttosto per rimarcare sia la profonda scissione e ambivalenza riscontrata nei messaggi contrastanti, sia nella perdita di significato che genera uno strisciante senso di perplessità nella lettura della realtà.

Il rischio di questa comunicazione “ammalata”, soprattutto su persone già fragili e sofferenti è la ricaduta e la slatentizzazione di disturbi patologici pregressi o l’insorgenza di una serie di sofferenze psicologiche quali disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, alterazioni sintomatologiche da stress cronico, fobie, disturbi dell’adattamento, comportamenti aggressivi e violenti, dipendenze patologiche.

Non solo: uno studio italiano (Cognitive and mental healt changes and their vulnerability factors related to COVID-19 lockdown in Italy) uscito da pochi giorni sulla prestigiosa rivista “Plosone”, ha indagato quelli che sono stati i danni provocati dal confinamento dal punto di vista delle abilità mentali come, ad esempio, funzioni esecutive, attenzione e concentrazione, memoria. Poiché, come detto in precedenza, le capacità cognitive sono uno dei principali “filtri” con cui noi rielaboriamo le informazioni in arrivo e che determineranno quale peso avrà ciascun contenuto in entrata, non stupisce purtroppo riscontrare da tale studio che le difficoltà cognitive siano correlate con i disturbi psicologici: maggiore è il disagio psicologico esperito, peggiore risulta il funzionamento delle abilità cognitive e peggiore è il funzionamento di queste abilità e maggiore è il rischio di sviluppare un disagio psicologico.

In conclusione ci auguriamo che, come forse sta già accadendo per la campagna vaccinale, verrà usata una rapida inversione di tendenza nella comunicazione: essa dovrà continuare a invitare all’attenzione e al tempo stesso essere chiara nello spiegare i “perché”, dovrà ravvivare realistica speranza, ascoltare empaticamente le esigenze di tutta la popolazione (in particolare delle categorie ad oggi più psicologicamente provate), evitare allarmismi o proiezioni temporali nefaste basate su dati non ancora certi e, soprattutto, abbondare di ciò che a nostro avviso è maggiormente mancato nel corso dell’anno da poco concluso, la razionalità.

 

Tagmedicina, dott. Andrea Giammaria

 

Psicologo Clinico e specializzato in Psicoterapia Funzionale alla S.E.F – Scuola Europea di Psicologia e Psicoterapia Funzionale. Esperto in disturbi d’ansia e da stress cronico, da anni si occupa di trattamenti funzionali antistress nella pratica clinica, ottimizzando i benefici del dialogo terapeutico con il trattamento corporeo e psico-corporeo. Applica la metodologia MFA-Metodologia Funzionale Antistress ® per la risoluzione dei disturbi da stress cronico nell’ambito clinico e la gestione della pressione e dell’ansia da prestazione nell’ambito della Psicologia dello Sport, dove è formatore e mental trainer di sportivi professionisti di alto livello. Inoltre è Docente presso l’Università degli Studi di Parma, dove insegna ai medici l’effetto dello stress sull’invecchiamento e Psicopatologia dei disturbi psicofisiologici e somatoformi, nel Master di II livello in Medicina Estetica orale e periorale. Nella pratica clinica psicoterapeutica, sia individuale che di gruppo, vanta una decennale esperienza nell’utilizzo del corpo in terapia e nella risoluzione di problematiche e sintomatologia psico-fisiologica. È co-fondatore del Gruppo Eljos – equipe di psicologia funzionale, dove si occupa di Psicologia del Potenziamento per l’implemento delle risorse individuali e di gruppo e l’incremento della performance.

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