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Una ricerca condotta nel Regno Unito ha indicato che il 53% dei lavoratori sono vittime di ”bullying” (Bullismo) e il 78% hanno assistito ad atti di ”bullying” (Bullismo). Il termine, letteralmente significa intimidazione, è utilizzato per indicare la violenza di tipo psicologico perpetrata sul posto di lavoro.
Che cos’è il bullying (Bullismo)
Una serie di comportamenti ”al limite” di tipo vendicativo, malevolo, ingiustamente critico, umiliante o minaccioso, che minano la dignità dei lavoratori. Questa è la definizione di bullying, un concetto non molto distante da quello di mobbing, categoria più ampia che sottintende un comportamento persecutorio verso un lavoratore. Del resto il numero di persone che si rivolgono al medico per denunciare un problema di tipo psicologico è in continua crescita e molti pazienti lamentano lo stress lavorativo, in molti casi proprio episodi di bullying, come causa principale.
Infatti, un comportamento offensivo e intimidatorio protratto a lungo su un soggetto psicologicamente più debole non può che generare nella vittima turbamento, senso di minaccia, umiliazione e vulnerabilità, minando l’autostima e conducendo ad uno stato di stress costante. Una recente classificazione contempla cinque categorie di bullying:
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minaccia dello status professionale,
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minaccia della propria condizione personale,
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isolamento,
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iperlavoro
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destabilizzazione.
Si creano così – continua l’editoriale del British, ambienti di lavoro ”tossici” nei quali simili comportamenti non possono che proliferare e nei quali parlare in modo franco risulta difficile e si finisce per coltivare un’epidemia silenziosa.
Gli esperti sono al Nord
Come premesso si tratta di un problema sviscerato particolarmente nel mondo anglosassone, dove più studi, in particolare in Scandinavia, hanno fatto il punto della situazione. Non a caso Svezia e Norvegia sono i soli paesi europei che dispongano di una legislazione specifica sull’argomento. In Gran Bretagna, un altro paese dei ”bulli”, sono stati stimati i costi complessivi della malattia che oscillano tra i 2 e i 30 miliardi di sterline l’anno, 3 miliardi di euro per intendersi. Di particolare rilievo, poi, è il problema tra gli operatori sanitari. Secondo una indagine condotta su 1100 impiegati presso il Servizio Sanitario Nazionale inglese, il 38% si è dichiarato soggetto a bullying e il 42% ha assistito al bullying nei confronti di colleghi. Percentuali simili a quelle riscontrate, sempre in Gran Bretagna, tra 1000 ”junior doctors” ospedalieri (medici in formazione).
Che cosa si può fare?
La risposta, secondo il Bmj, è più complessa di quanto si possa pensare. Intanto è necessario che i medici aumentino la loro consapevolezza che il bullying può essere una fonte di stress per i loro pazienti. Ciò significa domandare abitualmente come vanno le cose al lavoro, quando si ha a che fare con un paziente con un quadro ansioso e depresso. Anche problemi di concentrazione, insicurezza e mancanza di iniziativa possono essere sintomatici di un problema di questo genere. Una volta identificato il problema diventa, poi, indispensabile fornire supporto e incoraggiamento ai pazienti. Come? Intanto garantendo tutte le informazioni del caso, un ruolo per il quale è necessario che i medici diventino padroni di queste tematiche. Oggi – secondo l’editoriale – non sempre è così, manca cioè comunicazione tra medici generici e medici del lavoro. Anzi è lo stesso mondo sanitario che presenta, nel 12% dei casi totali, episodi di bullismo. Ecco perché tutti i medici che sono anche docenti, devono avere nella giusta considerazione il ruolo che rivestono nei confronti degli studenti di medicina e degli specializzandi. Altrimenti, come testimoniano alcuni studi, si genera una catena di comportamenti ostili di generazione in generazione. Come a dire innanzitutto il buon esempio.
Fonte
McAvoy B. R. et al. Workplace bullying. BMJ 2003; 326: 776-777 Quine L. Workplace bullying in junior doctors: questionnaire survey. BMJ 2002; 324: 878-879